L’Italia deve fare un “salto evolutivo” se vuole diventare un player del mercato a livello internazionale

06 Riccardo-palmisano-(foto-web)Intervista a Riccardo Palmisano – Presidente Assobiotec

In qualità di neo Presidente di Assobiotec, come vede l’evolversi del settore delle biotecnologie nei prossimi anni?

Le biotecnologie fanno ormai pienamente parte del presente e sono elemento integrante della nostra vita, sia che si parli di red, green o white biotech. La Commissione Europea già nel 2009 le ha riconosciute come tecnologie abilitanti per molteplici comparti industriali e certamente oggi rappresentano uno dei settori di maggior sviluppo. In futuro molti dei prodotti nell’area della terapia e della diagnostica saranno di natura biotecnologica, influenzando tanto l’area della ricerca e sviluppo, ma anche quella della produzione. Per quello che riguarda le nuove terapie, queste troveranno applicazioni soprattutto, ma non solo, nelle aree dell’oncologia, dell’ematologia, delle malattie neurodegenerative, oltre che nell’ancora poco esplorato spazio delle malattie rare. Anche nell’area industriale (white biotech), le biotecnologie sono già una realtà e sono destinate a crescere molto nei prossimi anni. Esse offrono straordinari strumenti per ottimizzare la trasformazione delle biomasse in bio-prodotti eco-sostenibili e in biocarburanti di seconda generazione o per migliorare la resa e la sostenibilità ambientale dei processi produttivi tradizionali. Passando al settore green, le biotecnologie giocano e giocheranno un ruolo molto importante, in particolare per migliorare la produzione agricola, generare sostanze bioattive limitatamente disponibili in natura, aumentare le produzioni senza estendere le superfici coltivate, così come ridurre i consumi di acqua e gli effetti delle aggressioni di parassiti e delle patologie vegetali in genere.

Giusto per citare qualche dato, l’Ocse prevede che nel 2030 le biotecnologie avranno un peso rilevante nella produzione del 50% dei prodotti agricoli, dell’80% di quelli farmaceutici e del 35% dei prodotti chimici-industriali. Parliamo quindi di una tecnologia pervasiva e ad altissimo impatto.

 

Assobiotec è uno dei soci fondatori del Cluster Alisei. Quale dovrà essere il suo ruolo nel prossimo periodo e quali iniziative dovrà intraprendere per riuscire a far comprendere che il settore delle biotecnologie può essere uno dei pilastri per la crescita del Paese?

Assobiotec non è solo uno dei soci fondatori, ma ad oggi uno dei più grandi sostenitori del potenziale del Cluster. Abbiamo lavorato con fiducia e impegno e siamo convinti della sua importanza. Il suo ruolo fondamentale nel prossimo periodo è, dal nostro punto di vista, quello di portare a livello istituzionale le esigenze di chi – come i nostri associati – fa ricerca, sviluppo e produzione innovativi.

La mission del Cluster si può sintetizzare in poche parole: “fare da collante fra il mondo dell’industria, quello dell’accademia e le istituzioni per aiutare a creare una regia unica e centrale, indispensabile secondo noi per competere in uno dei settori su cui si baserà il futuro del Paese”.

Crediamo che l’Italia abbia un grande potenziale per avere un ruolo da protagonista e non da follower nel mondo del biotech; esistono per questo solidi presupposti, ma perché ciò avvenga si deve riuscire a superare la frammentazione tipica del nostro Paese, che rischia di disperdere energie e risorse a scapito di un effettivo sviluppo. La nostra speranza è che il Cluster Alisei possa fungere da punto di aggregazione e confronto tra i vari soggetti, portando in maniera forte sui diversi tavoli di lavoro attualmente aperti le tematiche della biotecnologia, diventando di fatto un portavoce delle istanze di tutti.

 

Quale deve essere il rapporto, secondo lei, tra laboratori di ricerca pubblici e industria privata in Italia? Qual è lo stato dell’arte e quali i possibili sviluppi futuri?

Parliamo di due mondi che fino a non molto tempo fa comunicavano poco tra loro. Veniamo infatti da una tradizione nella quale la ricerca pubblica guardava con scetticismo e sospetto a quella privata.

Questa situazione, tuttavia, sta lentamente cambiando e oggi è indispensabile che l’accademia si doti di un linguaggio che le permetta di parlare la stessa lingua dell’industria e degli investitori così come le imprese hanno compreso il valore della collaborazione con l’università.

Nel rapporto università/industria ci sono alcune aree dove è necessario intervenire, partendo dal trasferimento tecnologico, fino ad affrontare il tema della proprietà dei brevetti: in Italia continuiamo ad avere i brevetti in capo al ricercatore, una situazione poco stimolante per l’Ente Universitario che deve valorizzare i brevetti prodotti al proprio interno. All’estero, invece, ci sono università che vivono di brevetti e investono in ricerca grazie alle royalties che ricevono dalle imprese a cui hanno ceduto i prodotti della loro ricerca. È evidente che questa condizione pone le università italiane in una posizione sfavorevole rispetto alle competitors estere. Naturalmente in questo scenario si deve inserire anche la scelta degli investimenti pubblici, che dovrebbero, dal nostro punto di vista, considerare la biotecnologia come una delle aree dove allocare risorse, senza le quali è difficile essere competitivi a livello internazionale. Ma un investimento moderno ed intelligente sul biotech e sull’innovazione dovrà evitare i finanziamenti a pioggia, focalizzandosi invece su pochi buoni progetti, utilizzando metodi di peer review internazionale o scegliendo di finanziare i progetti che hanno già raccolto finanziamenti privati.

Dal nostro osservatorio vediamo una crescente tendenza delle big bio-pharma a sposare un modello di ricerca sempre più collaborativo; anche le grandi aziende hanno infatti ridotto i centri di ricerca in-house, aumentando invece la ricerca collaborativa. In questo contesto lo scouting di progetti in giro per il mondo diventa fondamentale per trovare temi di ricerca che abbiano un buon fit con le strategie aziendali: questo offre una nuova, grande opportunità alle università, agli spin off ed alle start up del nostro Paese, ma è necessario che l’Italia sia pronta e preparata a questo, considerando che un elemento fondamentale nel mondo globalizzato è il tempo, che diventa spesso la discriminante per chi investe.

È ormai fuori discussione che la ricerca per poter arrivare effettivamente al letto del paziente e non rimanere solo teoria ha bisogno dell’impresa. In quest’ottica l’Italia vanta un esempio virtuoso di collaborazione accademia-non profit-impresa privata che ha già dimostrato di funzionare: dal lavoro accademico del San Raffaele di Milano, del non profit di Tiget-Telethon, di big-pharma di GlaxoSmithKline e della biotech italiana Molmed si è arrivati all’autorizzazione europea del primo prodotto di terapia genica per una malattia rara, l’ADA-SCID. È una storia nata in Italia e che resterà italiana, con i pazienti che verranno da tutta Europa al San Raffaele per poter usufruire della terapia.
Noi crediamo che simili percorsi siano da incentivare affinché non rimangano casi isolati, seppur di assolta eccellenza.

 

Come vede l’evolversi del settore delle scienze della vita e più nello specifico quello delle biotecnologie in un quadro europeo e internazionale? E come, secondo lei, potranno inserirsi le aziende italiane?

Non solo le biotecnologie terapeutiche giocheranno un ruolo fondamentale nel prossimo futuro, anche la diagnostica e i biomarcatori rappresentano un’area di grandissimo interesse, soprattutto in un’ottica di “farmaeconomia”: mirare meglio l’utilizzo di farmaci innovativi e costosi, permetterà di risparmiare risorse, evitando di sottoporre a cure farmacologiche pazienti che non risponderebbero. Nella stessa prospettiva, terapie più efficaci potranno ridurre i tempi di ospedalizzazione, evitare interventi chirurgici e recidive, contenendo la necessità di ulteriore diagnostica, e non da ultimo migliorare la qualità della vita intesa come tempo libero dalla malattia.

In questo scenario l’Europa si trova in posizione arretrata rispetto agli Stati Uniti e rischia di essere sorpassata anche da paesi come il Giappone e la Corea del Sud, oltre che da quelle realtà che oggi stanno dimostrando grandi capacità di investimento, una su tutti: la Cina. Tuttavia nel settore delle scienze della vita l’Europa ha una posizione rilevante grazie ad alcuni Cluster tecnologici particolarmente avanzati e con grandi prospettive: mi riferisco al cosiddetto golden triangle in UK (Londra, Oxford e Cambridge), all’area tra il sud della Francia ed il nord della Svizzera, al corridoio tra Amsterdam ed Utrecht in Olanda. L’Italia, dopo aver venduto gran parte della sua farmaceutica tradizionale, oggi con le biotecnologie ha di nuovo la possibilità di rimettersi in gioco. I deal che sono stati realizzati negli ultimi anni, anche con vendite importanti, dimostrano che i ricercatori italiani sono in grado di passare dall’idea al prodotto. Ma ora sarebbe importante, anche in ottica di sviluppo economico e occupazionale, che le aziende italiane, invece di arrivare a un certo livello di sviluppo della ricerca e poi vendere l’azienda a capitali stranieri, facessero il salto di qualità, industrializzando il processo di produzione ed andando sul mercato, in modo da contribuire efficacemente al rilancio del PIL a livello nazionale. Certamente alcune aziende italiane tradizionali si stanno muovendo in tal senso e noi siamo convinti che la creazione di un ecosistema più favorevole all’attrazione degli investimenti possa permetterci di non perdere anche questo treno, altrimenti siamo destinati a rimanere un mercato (per gli altri) e perdere il ruolo di potenziali protagonisti dell’innovazione biotecnologica.