
I primi casi di Covid-19 sono stati individuati in Italia verso il 20 di febbraio e da allora la curva dei contagi è salita molto rapidamente, espandendosi soprattutto in alcune regioni del Nord Italia. C’era da aspettarsi una crescita del genere dopo l’esperienza cinese? Secondo Lei quali sono le ragioni per cui si è sviluppato prima in questa parte del Paese?
Sicuramente c’era da aspettarselo, perché in Cina a Wuhan la situazione è apparsa da subito molto difficile, inoltre si era capito che questo virus, a differenza del Coronavirus della SARS che aveva il picco di trasmissione dopo una settimana dalla comparsa dei sintomi, si comportava come il virus dell’influenza, in cui il massimo di contagiosità era al momento della comparsa dei sintomi. Questo lo ha reso un virus più difficilmente controllabile con misure di isolamento e quarantena.
Perché al Nord e perché in Lombardia: in parte dipende dal caso e in parte dal fatto che il virus sia entrato attraverso la mobilità delle persone, che può essere più elevata in una regione piuttosto che un’altra.
Inoltre il virus è entrato in Italia nella fase del picco influenzale e questo ne ha reso difficile l’identificazione perché i sintomi, soprattutto per i casi meno gravi, sono del tutto sovrapponibili a quelli dell’influenza rendendo più difficile la diagnosi differenziale.
È evidente che il Covid-19 non è stato diagnosticato subito e quando è stato identificato il primo caso intorno al 20 febbraio ormai era troppo tardi perché il virus circolava da tempo. Questo è stato un fattore determinante per la diffusione del virus nel Nord Italia. I provvedimenti di lockdown hanno contribuito ad arginare la sua diffusione e hanno sostanzialmente salvato le altre zone del Paese, in particolare il Centro Sud, almeno fino ad ora.
Recentemente ha affermato sulla stampa che si può andare verso una fase 2. Quali devono essere le precauzioni che bisogna adottare? Saremo effettivamente pronti il 4 maggio?
La data del 4 maggio è stata decisa dal Governo. Gli esperti e l’ISS non hanno indicato alcuna data.
È chiaro che la situazione sta migliorando, con una diminuzione dei nuovi casi e una riduzione della pressione sugli ospedali e sulle terapie intensive, per cui si incomincia a parlare di fase 2, ma non può essere un “liberi tutti”. Bisogna continuare a mantenere delle misure di distanziamento sociale perché il virus continuerà a circolare e il pericolo di una nuova emergenza sarà sempre presente. Allo stesso tempo bisogna rafforzare il controllo sul territorio e l’identificazione rapida dei casi, il rintraccio dei contatti, il loro isolamento ed essere pronti a individuare eventuali focolai intervenendo tempestivamente.
Per tracciare si parla di test sierologici, ma a oggi si leggono notizie contrastanti. Ci può fare chiarezza su questo tema.
La confusione è stata alimentata da alcune dichiarazioni improvvide. Quella per esempio del patentino d’immunità è stata un po’ azzardata.
È positivo il fatto che si stia programmando uno studio di sieroprevalenza a livello nazionale, perché questo può darci un’idea migliore della diffusione dell’infezione nel nostro Paese e perché ci permette di vedere quanta popolazione si sia infettata, però c’è bisogno di test che siano sensibili e specifici.
Per quanto riguarda invece la presenza individuale di anticorpi è un po’ più difficile. Se un soggetto risultasse positivo, potrebbe aver sviluppato anticorpi, ma il loro significato non sarebbe del tutto certo e non sappiamo quanto a lungo potrebbe durare la loro copertura. Avere anticorpi non significa per forza essere immune: una persona potrebbe avere anticorpi ma risultare ancora positiva al virus. Per cui il test a livello individuale è ancora da comprendere a fondo, si spera in futuro possa essere utilizzato con maggiore accuratezza.
Si è visto che alcuni trattamenti farmacologici fatti nelle prime fasi dell’infezione (eparina a basso peso molecolare, idrossiclorochina e antivirali) riescono a bloccare o quantomeno a non far degenerare la malattia. Potremmo pensare, anche in previsione dell’allentamento del lockdown, di utilizzare questi trattamenti in maniera diffusa almeno fino a quando non ci sarà un vaccino?
Probabilmente ci sarà più facilità nella disponibilità di farmaci che del vaccino. Si auspica che qualcuno dei trattamenti adottati fino a ora possano incidere positivamente sul decorso clinico della patologia. A parte gli antivirali, la cui efficacia è da dimostrare, in quanto farmaci oggi utilizzati per altri tipi di virus come HIV, ebola, influenza; attualmente è in corso una valutazione di efficacia per quanto riguarda in particolare l’idrossiclorochina, però c’è la necessità di analizzare dati più definitivi.
Ci potranno essere prove di efficacia che ci indicheranno meglio come trattare i pazienti infettati dal Covid-19 a seguito dell’utilizzo dei farmaci che possono bloccare la cascata citochimica, dei farmaci anti Interleuchina 6, che sono in grado di bloccare la CID, e anche dei farmaci antinfiammatori.
L’eparina fa parte del gruppo di farmaci che sono stati usati. Si è visto che il virus provoca una coagulazione intervascolare disseminata a livello dei polmoni, con la formazione di trombi, per cui l’uso di eparina in alcuni casi è stato efficace. Speriamo di avere delle prove di efficacia sui trattamenti e avere dei protocolli terapeutici più precisi in un prossimo futuro.
In fine in merito ai tempi: per un farmaco specifico ci vorrà tempo, invece la messa a punto di un trattamento di supporto sarebbe più veloce, anche perché i farmaci sono già disponibili. Però è difficile fare previsioni precise sulla tempistica.